Hanno collaborato a questo sito:
B:K Officina editoriale

Realizzazione sito e testi

Bianca Puleo

Fotografie

Mail

Diederik Pierani

Illustrazioni

InstagramPortfolioMail

Lotta integrata: il pericolo delle mezze misure

Sulla carta la lotta integrata dovrebbe essere il livello base per chi pratica l’agricoltura oggi, con una riduzione drastica dell’uso di fitofarmaci e grazie a varie buone pratiche che la differenziano dall’agricoltura convenzionale, ormai destinata all’estinzione. Ma le storture derivate da una colpevole o insufficiente applicazione, la stanno trasformando in una mezza truffa, che qualcuno – come Franco Ferroni, responsabile dell’agricoltura del WWF italia – definisce addirittura la lotta integrata come “un grande imbroglio per i consumatori”. Un’esaustiva inchiesta apparsa sul numero di dicembre 2022 del Salvagente, a cura di Enrico Cinotti, spiega come ciò avvenga. E c’è davvero di che preoccuparsi.
È una brutta storia, fatta di mancati controlli, di soldi malamente gestiti, di interessi e di storture. Un quadro per nulla rassicurante e come al solito, perfettamente italiano. È quello che emerge dall’inchiesta di Enrico Cinotti per il Salvagente (dal significativo titolo “L’agricoltura cambia solo nome”) che mostra i limiti dell’applicazione della lotta integrata, che rischia di tradursi in una gigantesca coperta messa sul fatto che nulla, nella sostanza, cambia, nonostante le direttive europee.
La questione riguarda l’agricoltura a lotta integrata, che dovrebbe essere una via morbida per la riduzione sostanziale dell’uso dei fitofarmaci in agricoltura (sin dal gennaio 2014, quando scattò il recepimento da parte dell’Italia della Direttiva 2009/128 dell’Unione Europea sull’utilizzo sostenibile dei pesticidi). In pratica si stava decretando la fine dell’agricoltura convenzionale. Una rivoluzione per passi, destinata a porre fine all’aggressione dei campi operata senza rispetto né visione negli ultimi decenni dall’agricoltura convenzionale, con lo scopo – ormai improrogabile – di eliminare i trattamenti inutili, ripristinare le buone pratiche e moltiplicare le attenzioni, agendo con fermezza e progressività a favore della salubrità dell’ambiente e dei prodotti della terra. Nella sostanza quel che avviene oggi – per un mix di storture operate dai Programmi di sviluppo rurale – è che la dicitura lotta integrata sta perdendo il senso che doveva avere e diventa solo un nome di copertura, mentre le pratiche dell’agricoltura convenzionale rimangono inalterate, per di più presentandosi con un volto “verde” ai consumatori, beffati. E così il ricorso alla chimica, che dovrebbe essere l’eccezione, torna a essere la regola.
Come ciò avvenga è messo bene in luce da Cinotti: “Basta scorrere i Psr, i Programmi di sviluppo rurale, i piani agricoli regionali sovvenzionati dai fondi Pac, per capire come nei disciplinari per la lotta integrata siano ammesse tutte le tecniche tradizionali, trattamenti fitosanitari inclusi, senza inoltre prevedere alcun obbligo all’impiego di metodi alternativi all’uso di erbicidi, fertilizzanti e insetticidi.“ Nessun controllo, nessun vincolo, giusto un controllo documentale.
Sembra assurdo e persino impossibile, ma è così. Solo la regione Toscana e la Calabria per esempio hanno messo al bando il glifosato. In tutte le altre regioni si dovrebbe rispettare il limite di 2 l all’anno per ettaro, ma in assenza di rendicontazione, in realtà tutti possono fare quel che vogliono. E rinunciare al glifosato si sa, è possibile, ma ha i suoi costi. Anziché diserbare con la chimica bisogna farlo con le macchine: esattamente quelle che si dovrebbero acquistare con i fondi pubblici resi disponibili agli agricoltori. E qui entra in ballo appunto la questione economica, che insieme alla mancanza di controlli e rendicontazioni rende la questione “lotta integrata” quasi diabolica.
Perché  per venire incontro ai maggiori costi implicati appunto dalle coltivazioni a lotta integrata  – oltre ai contributi diretti destinati dalla PAC, la Politica agricola comune, e che consistono in 2.4 miliardi di euro – sono stati aggiunti 6.9 miliardi di risorse aggiuntive. Una cifra imponente rispetto agli 1.7 miliardi che rappresentano le sovvenzioni comunitarie al biologico italiano (che, con pratiche ancora più rigorose e stringenti e certificazioni imponenti, ha ovviamente costi ancor maggiori). A questo punto scegliere di coltivare in lotta integrata può risultare conveniente (e cose importa se non ci sono controlli…), soprattutto in un momento di crisi. Il risultato è visibile – e vistoso in alcuni dati – riportati dall’inchiesta: “In Lombardia, per il riso, i pagamenti per l’agricoltura integrata prevedono complessivamente 375 euro per ettaro a fronte di 345 euro per l’agricoltura biologica. In Emilia-Romagna per i seminativi (cereali, ortaggi, etc), l’agricoltura integrata riceve 410 euro/ettaro a fronte dei 168 euro per il bio, mentre sulle foraggere sono previsti 220 euro/ettaro per l’integrato e 126 euro per il biologico”. Non c’è da stupirsi allora se molti – che avevano deciso di dedicarsi al biologico, con tutto il suo rigore e le conseguenti difficoltà – tornano indietro: è semplicemente più remunerativo e il consumatore si sente comunque rassicurato dalla dicitura “lotta integrata” che ha anche una sfumatura semantica “combattente” che richiama all’azione e al contrasto.
C’è poi un altro dato riportato, chiarissimo, che fa drizzare i capelli “I dati di Eurostat sulla vendita dei fitofarmaci in Italia segnalano una riduzione del 20% nel decennio 2011-2020, ma se ci focalizziamo agli ultimi anni, dal 2017-2020 – il periodo nel quale si sono concentrate le sovvenzioni della Pac all’integrato – il trend si inverte e le vendite tornano progressivamente a risalire.“ 

Anche Roberto Pinton, esperto in normativa agroalimentare, critica il progetto del ministero: “Con il sistema Sqnpi, invece di stimolare le aziende a ridurre la chimica, si ratifica l’esistente e si incentiva chi non vuol cambiare strada (…) Non capisco come si possa concepire un marchio di sostenibilità scegliendo un’ape come testimonial per poi concederlo a prodotti ottenuti con pesticidi classificati come ‘molto tossici per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata’ e che sono individuati regolarmente nelle acque superficiali e delle falde profonde, spesso superando i limiti stabiliti a livello europeo e nazionale, per non dire di quelli più frequentemente rilevati in Italia in concomitanza a fenomeni di morie o spopolamenti di alveari (…)Mi chiedo che senso abbia continuare a premiare con i contributi pubblici gli agricoltori che usano queste sostanze e per di più regalare loro la possibilità di definire “sostenibile”.

Nel 2023 le cose dovrebbero cambiare. Dovrebbe partire la nuova PAC e queste differenze ci si augura svaniscano, recependo un concetto elementare: che a fronte di un maggiore impegno nella sostenibilità vi siano maggiori remunerazioni dalla comunità. Ma ancora non vi sono certezze: Bruxelles non ha ancora siglato la nuova PAC e il quadro resta nebuloso.