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Quando “zero pesticidi” è ingannevole

C’è una sola vera strada verso l’assenza di pesticidi negli alimenti (e nel terreno): il biologico. E c’è una sola e unica certificazione che lo attesta: è quella rappresentata dalla fogliolina verde del logo biologico europeo, che vedete qui sopra. Sembrerebbe una banalità, un’evidenza quasi lapalissiana, ma molti consumatori non lo sanno e noi non ci stancheremo mai di ripeterlo. Soprattutto in tempi come questi, in cui per le aziende alimentari “vestirsi di verde”, indossando certificazioni alternative (e molto più facili da ottenere) sembra divenuta la nuova moda.

È il caso sollevato in Francia dalla rivista “60 millions de consommateurs” che denuncia il proliferare di certificazioni che spesso rappresentano dei veri e propri escamotage: delle scappatoie che permettono di presentare i prodotti usando terminologie che inducono il consumatore a credere che non siano stati usati pesticidi, quando invece non è così.

A questo proposito il 22 gennaio le associazioni francesi di consumatori, ambientalisti e agricoltori si sono unite nel presentare una petizione al Consiglio di Stato che chiede di riconoscere un inganno che dura da ormai 10 anni e che si riassume in un solo concetto: greenwashing. Ovvero mostrare sensibilità ambientale senza averne davvero (o facendo comunque scelte parziali e di compromesso).
Di esempi non ne mancano. Prendete l’etichetta Zero Pesticide Residue (zero residui di pesticidi), che è stata creata nel 2018 dal collettivo privato Noveaux Champs. La promessa sembra chiara, esplicita. Peccato però che si tratti di un metodo che dice di basarsi sui risultati, anziché sul metodo. L’ìmportante – dicono loro – non è vietare tout-court i pesticidi e i fitofarmaci di sintesi (come fa il biologico, che semplicemente non ne ammette l’uso). È infatti ne ammettono l’uso. L’importante è che nel prodotto finale la soglia di 0.01 mg/kg non venga superata. Il che vuol dire che i pesticidi si possono comunque usare, a condizione appunto che – anche tramite una serie di trattamenti (come plasma freddo, ozono, ultrasuoni) – il prodotto finale sia “decontaminato”. Senza trascurare poi che la lista di pesticidi non viene specificata e che gli esami vengono compiuti da laboratori privati non dichiarati. Bonduelle – per citare un marchio famoso anche in Italia – indica solo un “laboratorio indipendente”. Picard, noto per i surgelati, parla di “laboratorio indipendente accreditato”. Alla faccia della trasparenza.

Del resto anche in Italia esistono casi simili. Come Zuegg, con la sua linea di succhi di frutta e marmellate “Senza residui di pesticidi”, o Pasta Armando che con il “Metodo Zero Residui di Pesticidi e Glifosato” assicura il controllo e l’assenza di 33 pesticidi. In questo caso a interrogarli e muoversi per avere chiarimenti è stati Il Salvagente. Anche perché i fitosanitari ammessi sul grano sono ben più di 33: in realtà sono più del doppio. Le domande poste sono state semplici e chiare: “l’azienda controlla anche i restanti? E se sì con quali risultati?” Dopo qualche esitazione, Pasta Armando, marchio del gruppo De Matteis Spa, ha risposto che in realtà ammettono circa una ventina di fitofarmaci. Solo che stanno attenti a come usarli e soprattutto quando usarli, per far sì che quando la pianta giunge a maturazione i residui del trattamento siano esenti dai chicchi.
Peccato che questo metodo guardi solo al risultato finale e non consideri cosa succede al terreno.
Come si legge sull’articolo pubblicato dal Salvagente, è Franco Ferroni, responsabile Agricoltura del Wwf Italia e coordinatore della coalizione Cambiamo Agricoltura a spiegare come stanno davvero le cose: “Senza demonizzare alcuna scelta, l’obiettivo del Farm to fork di riduzione dell’uso dei fitofarmaci (del 62% entro il 2030 è quanto chiesto dalla Ue all’Italia, ndr) riguarda il cibo ma anche la terra. Sappiamo quanto persistenti siano alcuni principi attivi e quanto nei nostri terreni e nelle nostre falde acquifere siano ancora presenti sostanze messe al bando decine di anni fa”