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Il nostro intervento alla Conferenza Nazionale sull’Agricoltura

Venerdì 16 febbraio 2023, si è tenuta presso la sala Sassoli del Partito Democratico e online la Conferenza nazionale sul futuro dell’agricoltura cui hanno preso parte, insieme alla segreteria del PD, associazioni e organizzazioni del settore. Stimolata dalla recenti proteste degli agricoltori, che impongono risposte alle loro rivendicazioni, la Conferenza ha offerto vari interventi e un momento di confronto collettivo.

Riportiamo qui per intero l’intervento di Valentina Pizzi, che è anche consigliere in AssoBio, che riassume e spiega la nostra posizione, condivisa con gli operatori del biologico.

 

Negli ultimi giorni abbiamo assistito ad una protesta legittima e sicuramente motivata, con un malcontento originato da quello che è il principale, annoso e non ancora risolto problema degli agricoltori: spuntare il giusto prezzo all’origine.

Gli agricoltori hanno ragione nel manifestare il loro disagio e anche la loro rabbia; a mio parere hanno meno ragione nelle conclusioni, nel bersaglio della protesta. Riportando il messaggio della Presidente di FederBio Mariagrazia Mammuccini, prendersela con il Green Deal vuol dire scambiare il rimedio con la causa del male.

La Presidente di Assobio, Nicoletta Maffini, giustamente ha ricordato che “la strumentalizzazione delle proteste che in questi giorni ha messo in discussione il Green Deal è una strada non adeguata per l’intero sistema agroalimentare e per la salute dell’ambiente e della società stessa. E rischia di mettere in ombra l’importante discussione pubblica su una necessaria transizione dei sistemi di produzione delle materie prime alimentari.”

Su un punto le proteste hanno ragione: l’importazione di derrate agricole da paesi extra-europei non in regime di equivalenza (quindi da sistemi che non rispettano i regolamenti comunitari) ha come conseguenza l’arrivo sui nostri mercati di prodotti non conformi ai limiti previsti dalle norme europee. Prodotti che vengono poi venduti a prezzi inferiori di quelli praticati dagli agricoltori europei, magari sfruttando mano d’opera minorile. Questo si traduce in un problema di concorrenza “sleale” e di politiche dei prezzi al ribasso, mentre per il consumatore torna a essere pressante la questione della sicurezza alimentare di ciò che si porta sulle nostre tavole.

Da un punto di vista ambientale non dimentichiamo che le monoculture e la produzione intensiva e industriale vanno a discapito della salute dei coltivatori e della fertilità naturale e, nel tempo, anche di quella artificiale: laddove questo modo di fare agricoltura è più diffuso si assiste all’abbandono delle campagne e alla desertificazione dei suoli. E le conseguenze sono superfici enormi di terreni abbandonati che saranno da rigenerare, ed una perdita netta della biodiversità sia vegetale che animale.

A fronte di tutto questo Assobio ribadisce che la prima declinazione della SOSTENIBILITÀ è il metodo di produzione biologico. Ricordo a tutti che l’agricoltura biologica è il metodo di coltivazione che si basa sull’esclusione di fertilizzanti, diserbanti, fungicidi, insetticidi di sintesi. Il principio fondamentale che ispira queste scelte è la sostenibilità sociale ed ambientale. Significa non solo mangiare sano e senza pesticidi, ma soprattutto non contaminare l’aria, le acque superficiali e di falda, il suolo ed il territorio su cui intere famiglie investono la propria esistenza da generazioni.

A questo proposito ritengo fondamentale fare chiarezza: la parola “agrofarmaci” è un neologismo rassicurante che ha preso il posto di fitofarmaci; ma si tratta pur sempre di PESTICIDI, dannosi, cancerogeni, gruppi di molecole di cui non si conoscono ancora gli effetti combinati. Secondo l’ISTAT l’agricoltura italiana utilizza ogni anno 122mila tonnellate di pesticidi, circa 500 diversi principi attivi. Che tra le indicazioni di pericolo contenute in etichetta, oltre a “Molto tossico per gli organismi acquatici, con effetti di lunga durata” riportano: ”Sospetto di nuocere al feto”, “Può nuocere alla fertilità”, “Può provocare danni agli organi in caso di esposizione prolungata o ripetuta”.

La situazione dei residui chimici negli alimenti è fotografata dal dossier “Stop ai pesticidi nel piatto 2023”. In esso Legambiente elabora i dati reali forniti da pubblici uffici quali ARPA, IZS, USL, ATS.

Il 70% della frutta campionata nelle analisi ufficiali contiene residui, la metà dei campioni presenta residui di più sostanze. Lo stesso vale per più del 30% degli ortaggi (un terzo con residui di più sostanze).

A tutela della loro salute, le normative europee (quindi vigenti anche in Italia) stabiliscono che negli alimenti per lattanti e bambini fino ai tre anni non deve essere presente alcun residuo (almeno al di sopra della soglia tecnica dello 0,01mk/kg, che viene accettata in nome dell’inevitabilità di una contaminazione minima).

Ora, ottenuto lo sgravio dell’Irpef agricola, si gettano le maschere, e non si parla più di Green Deal.

Diciamolo: i veri vincitori delle proteste dei trattori sono i produttori di pesticidi.

Ad aver vinto questa battaglia condotta conto terzi dai comitati di agricoltori ribelli, è il settore dell’agrochimica, che anziché investire nella ricerca di molecole a minor impatto potrà continuare nel suo business macinando utili e dividendi grazie alla vendita, a caro prezzo, di pesticidi a un’agricoltura tossicodipendente che rifiuta ogni percorso di riabilitazione.

E qui entra il grande tema dei nuovi OGM, ribattezzati Nuove Tecniche Genomiche o TEA, pericolosamente introdotti e voluti dal governo reggente. Una strada dalla quale, una volta intrapresa, non si torna più indietro.

La spinta verso una scelta irresponsabile nasce dalle organizzazioni dell’agroindustria e dalle imprese sementiere transnazionali interessate a vendere nuovi OGM coperti da brevetti di loro proprietà, mentre la protesta degli agricoltori viene ampiamente strumentalizzata dalle principali organizzazioni di categoria. Entrambi responsabili di somministrare la pillola avvelenata delle NGT, facendola passare per una medicina utile contro i problemi di un modello agricolo intensivo insostenibile, la cui crisi, economica e produttiva, è ormai cronica. La cui via di uscita non erano gli OGM di prima generazione negli anni Novanta, così come non lo sono oggi quelli prodotti dalle NGT.
Le mutazioni geniche fuori bersaglio sono all’ordine del giorno con queste biotecnologie, propagandate invece come precise e mirate. I loro effetti sulle piante e sugli organismi viventi sono ancora largamente sconosciuti e vengono minimizzati da una ricerca che dipende ormai dalla vendita delle sue “innovazioni” ai signori dei semi. Gli interessi in gioco sono grandi: c’è un mercato potenziale di 550 milioni di consumatori che finora non ha voluto comprare OGM e poteva contare su etichette obbligatorie sui prodotti per poter scegliere. Alla faccia dei milioni di agricoltori dei 18 paesi europei che si sono dichiarati “OGM free”.
Con la deregulation rischierebbero la contaminazione dei loro campi da parte di pollini NGT portati da agenti atmosferici e insetti impollinatori e rischierebbero ad ogni semina di violare il brevetto di qualche multinazionale delle sementi.

La biocontaminazione sarebbe un dramma irreversibile anche per l’agricoltura biologica, che vieta l’uso di OGM in tutta la filiera. Ma sarebbe anche inevitabile vista la conformazione geografica del nostro paese.
Non sono una genetista, e riporto perciò il concetto più elementare che ho appreso durante l’ultimo seminario di Assobio: se si interviene sulla genetica e si modifica forzatamente qualcosa, poi da qui non si torna indietro. Per esempio, si modifica una pianta in modo che possa crescere e proliferare senza o con pochissima acqua, come sarebbe stato particolarmente utile nell’anno 2022. La stagione successiva arrivano tante piogge, all’improvviso, un’alluvione come nel 2023: quelle piante non sono più in grado di sopravvivere, muoiono, tutte. E non abbiamo più altre piante che, grazie alla biodiversità di cui le ha dotate la natura, potevano cercare di adattarsi. Ha senso ipotecare così il nostro futuro?

Molte delle azioni introdotte di recente stanno privilegiando una visione a breve a termine, perdendo la prospettiva a lungo termine, tipica di una gestione in modalità emergenziale.

A nostro parere invece le soluzioni ci sono e chi vuole le conosce bene. Bisogna investire nel benessere della società tutta e nel rispetto dell’ambiente, i due driver specifici dell’agricoltura biologica.
Diverse le strade da percorrere, qui ne cito tre: l’aggregazione, la comunicazione e la ricerca.
Le aziende di produzione vanno sostenute, in un regime di controllo serio e preparato. Bisogna mettere a disposizione dei coltivatori i mezzi gli strumenti e le materie prime che la moderna tecnologia ha creato, per esempio le attrezzature per la cosiddetta agricoltura di precisione, per ridurre sprechi di prodotti ed un loro utilizzo più efficace. Bisogna favorire le filiere ed ogni strategia che vada nella direzione delle sinergie operative e della riduzione generale dei costi e dello sfruttamento delle risorse finite, come si spera di fare con i fondi del PNRR per l’agrivoltaico. In quest’ottica va coinvolta anche la grande distribuzione: oltre che occuparsi del posizionamento dei prodotti sugli scaffali deve prendere atto delle proprie responsabilità in materia di riconoscimento del giusto prezzo. Assobio, come ribadito nei tavoli tecnici convocati dal MASAF, chiede di intervenire sui costi, riducendo il differenziale tra prodotti biologici e convenzionali, rendendo il costo dei prodotti agricoli il più vicino possibile al loro costo reale, incorporandone le esternalità ambientali e garantendo agli agricoltori un giusto prezzo. Va sostenuta la ricerca, e non solo quella privata, in termini di tecniche produttive, di selezione di specie appropriate per il territorio, di ampliamento degli assortimenti varietali, di produttività e di continuità delle forniture, di innovazione. Vanno gestite oculatamente tematiche importanti, come gli imballaggi, soprattutto quelli biodegradabili o compostabili, di recente oggetto di una campagna confusa e disinformata, le potenzialità dell’intelligenza artificiale, oppure le contaminazioni involontarie, su cui stiamo combattendo una dura battaglia in sede comunitaria. Attraverso un’auspicabile limitazione all’uso dei prodotti più pericolosi (per es. glifosato) e con la tassazione degli input chimici di sintesi (pesticidi, diserbanti e fertilizzanti), una riduzione delle tasse sui prodotti biologici il gap fra il costo del cibo biologico e convenzionale sparisce, anche in ragione di una maggiore massa critica di prodotti biologici sul mercato. Chi non inquina non deve più pagare per chi si ostina a farlo.

E infine, tutto questo va comunicato direttamente sulle tavole degli italiani, con campagne informative mirate ed intelligenti, che valorizzino la salubrità dei prodotti, la sostenibilità ambientale e la garanzia certificata del metodo di produzione. E che trasmettano il cuore del messaggio che vorremmo passasse: il valore del bio, una delle eccellenze del nostro paese.