
25 Ott Quando argomentare di purezza fa comodo
I media recentemente si sono molti occupati del tema della purezza. Pensiamo, è evidente, all’attualità del mondo dello sport e del doping. Purtroppo però ci sono questioni molto più grandi che chiederebbero spazio e dibattito, questioni che riguardano le nostra salute e quella delle nostre terre e delle nostre acque, oltre ai destini di molti lavoratori.
È il caso ora di quanto accade all’agricoltura biologica, che viene ostacolata nonostante rientri a pieno diritto nelle pratiche e nei processi che abbiamo il compito di proteggere, promuovere e portare a maturità, perché ce lo chiedono le circostanze mondiali e la nostra consapevolezza civica. L’ultimo caso è estremamente vistoso e ha conseguenze di vario tipo. E riguarda proprio la definizione di purezza: o meglio un uso del tutto imparziale di ciò che si ritiene puro e di ciò che invece non lo è.
Una questione di attenzione
Attenzione è la parola chiave. Di attenzione gli agricoltori biologici ne devono avere moltissima. Devono non solo stare attenti ad adottare tutte le buone strategie che gli consentono di non utilizzare pesticidi dannosi per l’uomo e per l’ambiente. Devono anche stare molto attenti all’acqua. E persino al vento. Perché, se nonostante tutte le precauzioni che coscientemente gli agricoltori mettono in atto, il vento o l’acqua portano con sé minuscole e inevitabili presenze di sostanze non ammesse, la frutta e la verdura bio vengono oggi dichiarate impure.
E devono andare al macero.
Ci vuole però davvero molta attenzione per rilevare i residui di quelle sostanze: un’attenzione smodata, capziosa Lo dice bene Enrico Cinotti nel suo articolo su Salvagente: “tolleranza zero per i pesticidi nei cibi biologici anche quando la concentrazione è al di sotto della quantificazione analitica (0,01 mg/kg), ovvero sotto lo “zero tecnico”, cioè anche quando è chiara la contaminazione accidentale”. Lo fissa il decreto legislativo 6 ottobre 2023, n. 148, art. 8. A firma del Ministro Lollobrigida.
È per di più un’attenzione tutta italiana, anzi solo italiana: quella soglia le regole europee non la prevedono. Eppure le regole europee devono – dovrebbero – prevalere. Perché non può essere fissata una soglia che limita solo i produttori italiani lasciando i concorrenti comunitari illesi.
Che poi oltre tutto, ci si domanda: perché mai il legislatore dovrebbe ostacolare e danneggiare proprio le aziende di casa nostra? Quale è la ratio?
Un peso, due misure
Per cercare una risposta a questa domanda occorre partire da un semplice considerazione: la regola citata vale solo per chi cerca di evitare di spargere pesticidi. Per gli altri, no. Non vale ad esempio per l’agricoltura a residuo zero, di cui abbiamo parlato già. Una agricoltura che dice, in soldoni: “Non è che non uso pesticidi, ma sulla mia frutta e verdura che mangi non ne troverai più. I pesticidi sono finiti solo nella terra e nell’acqua. Stai tranquillo”.
Per questi prodotti basta che al momento della raccolta le tracce siano sotto lo 0,01 mg/kg. Qui la contaminazione accidentale è tollerata.
È una discriminazione che dichiara una volontà e che ha un mandante politico, come dice Roberto Pinton: “Questo decreto è stato scritto con la condivisione delle grandi organizzazioni dell’agricoltura convenzionale, come Coldiretti, che vogliono il biologico come una piccola nicchia destinata alle aree marginali, i cui prodotti si vendano nei mercatini, meglio se quelli di Campagna Amica.”
La volontà è quindi punitiva. Per gli agricoltori biologici la contaminazione accidentale è una condanna, per gli altri no.
Dalle valli alle vette
Ci sarà certo chi si chiederà se l’accidente è davvero inevitabile. Tu, agricoltore biologico, hai davvero messo in atto tutte le misure necessarie? Insomma, se vuoi dichiararti un “good guy”, uno che fa le cose per bene nell’interesse di tutti e della terra, poi non puoi farti cogliere impreparato.
Il problema è che l’agricoltore biologico vive comunque in questo mondo. E che il suo terreno è accanto ad altri terreni, di agricoltori che magari non la pensano come lui e che non hanno scrupoli nell’usare pesticidi.
Illuminante a questo proposito il dato emerso da uno studio pubblicato su Nature – Communications Earth & Environment che mostra come i pesticidi usati nei meleti della Val Venosta siano decisamente poco stanziali. Andandoli a cercare in giro, per vedere quanto si siano mossi, si scopre che sono stati ritrovati ovunque, dal fondovalle dove insistono i meleti su cui sono effettuati i trattamenti fino alle vette delle montagne, passando per le aree di conservazione del Gruppo di Tessa e nel Parco nazionale dello Stelvio, intorno al massiccio dell’Ortles-Cevedale. Perché chiedere a un agricoltore – nonostante le molte barriere fisiche che deve approntare sui suoi campi – di riuscire là dove falliscono i monti alpini?
Se questo non bastasse a comprendere la gravità della situazione, e la sua pervasività, ci viene incontro il Rapporto periodico dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale che testimonia che “a livello nazionale, nel 2021, si sono riscontrati residui di prodotti fitosanitari nel 55,6% delle stazioni di monitoraggio delle acque superficiali (fiumi, laghi e acque di transizione), di cui il 28,3% supera i valori limite stabiliti dalle normative.
Per le acque sotterranee, invece, è il 23,2% dei punti di monitoraggio a presentare residui, con il 6,8% che supera gli standard di legge”. I residui sono ormai ovunque, non ce ne si libera. In vetta come in valle.
Senza tutela
A fronte di tutto ciò ci si aspetterebbe che il nostro bravo agricoltore biologico venisse premiato per i suoi sforzi tesi a non contribuire al degrado dell’ambiente. E invece viene punito. Ci si aspetterebbe che il legislatore lo aiutasse a preservare il suo raccolto dalle contaminazioni accidentali, per esempio imponendo a chi gli sta accanto pratiche adeguate che lo aiutino a proteggersi. E invece viene ostacolato per legge, con capestri che per gli altri non valgono: una vera perversione normativa, Per usare di nuovo le parole di Pinton
“il ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste autorizza gli agricoltori convenzionali (che coltivano grossomodo l’80% del territorio nazionale) a immettere nell’ambiente circa 122.000 tonnellate all’anno di centinaia di sostanze, magari etichettate “Molto tossico per gli ambienti acquatici con effetti di lunga durata”, i cui residui troviamo in oltre metà delle acque superficiali (e nel 28,3% dei punti di campionamento in quantità superiore ai valori limite di legge).
Poi considera non conformi i prodotti biologici che ne presentino tracce nemmeno quantificabili, fino a conclusione dell’indagine ufficiale svolta dall’organismo di controllo. Nel frattempo, il prodotto non può essere commercializzato (poco male se si tratta di grano e ceci, ma quando si tratta di fragole e lattughe?.” 1.
Viene da chiedersi a chi fa gioco tutto ciò. A chi serve osteggiare l’agricoltura biologica sino a questo punto? E quali interessi sono in gioco? L’interesse primario, quello comune, dovrebbe essere non avvelenare la terra. Perché invece qui sembra che sia azzoppare quelli che ci provano? A chi fa comodo pretendere questa purezza?
PER APPROFONDIRE
- Agricoltura biologica e residui da sostanze non ammesse. I guai in Italia – di Roberto Pinton (su Great Italian Food Trade)
- Biologico: cronaca di una morte annunciata – di Enrico Cinotti (su Il salvagente)
- Biologico, Vademecum sulle indagini ufficiali – di Roberto Pinton (su Great Italian Food Trade)